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La degenerazione del PCI: tra antifascismo e “democrazia progressiva”

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La cosiddetta “Rivoluzione Antifascista” rappresentò, insieme al “Socialismo”, il motore ideologico fondamentale del Pci su cui poter  accampare una  lunga stagione politica, dall’immediato  dopoguerra al  dissolvimento partitico di “Mani Pulite”. Un  composto ideologico già impresso, nel  dna costitutivo della svolta togliattiana di Salerno  (1944), della ben nota “ Via Italiana al Socialismo”: la formazione di un processo storico da consolidare attraverso  una “Democrazia Progressiva”  e che continuò dopo la morte di Togliatti (1964), nella conclusione di un ciclo storico  che prevedeva  l’inserimento del Pci al governo del paese. Si ricorda a questo proposito che la denominazione di  democrazia progressiva fu formulata per la prima volta da Togliatti, su indicazione della Terza Internazionale, nel  periodo della Guerra Civile Spagnola nella lotta contro il “Franchismo”, (1936-39)  e doveva rappresentare una fase di transizione da  un capitalismo arretrato (semifeudale) del fascismo ad un Capitalismo Borghese pienamente sviluppato, precondizione di ogni ingresso al Socialismo.

A questo proposito veniva ripresa, sic et simpliciter, l’analisi della III° Internazionale Comunista  sul nazi-fascismo intesa come  “Dittatura Finanziaria” del Capitalismo,  la cui corazza (finanziaria) aveva prodotto un blocco sociale reazionario con la (violenta) reazione di ceti medi sociali (ed agrari)  emarginati,  con l’obbiettivo finale dell’avvento di regimi dittatoriali ; né d’altro canto, con il senno del poi, la rilettura storica di  importanti autori (vedi Neumann)  riuscirono a invertirono una verità lapalissiana: i partiti nazi-fascista furono essenzialmente partiti industrialisti.

Anche se quell’insistere sul capitalismo arretrato del “Ventennio”,  divenne per il Pci  un provvidenziale dogma storico che permise una sua lunga sopravvivenza,  entro un mondo bipolare, in un “Equilibrio del Terrore”, che cristallizzò in un tempo immemore idee e politica: mondi politici da osservare in vetrina, come i dinosauri in un museo; una immobilità solo apparente, entro cui la vita scorreva in modo febbrile.

Poco prima del Compromesso Storico (1973) vi fu un intenso dibattito politico, dall’interno del Pci, apparso sui “Quaderni di Critica Marxista” ( n.2, del 1972),  per il “Cinquantesimo del Pci”; di un certo interesse risultò l’articolo di Gerardo Chiaromonte, dal titolo “ Riforme di struttura e direzione politica del paese”: un resoconto  dei primi Venticinque anni di politica italiana con una dovizia di particolari, frequenti tra quei politici dotati di un certo spessore culturale,  inimmaginabili e lontani anni luce dai politicanti‘sinistri’ dei giorni nostri.

Quella ricostruzione  di Chiaromonte  fu una premessa  sulle ragioni (convenienze) politiche  di  un’apertura  ad un governo con la Dc (Democrazia Cristiana), cui la segreteria berlingueriana (da insediare) doveva garantire come continuità politica ideale, onde “creare una politica nuova di trasformazione delle strutture economico-sociali,  sviluppo e  rinnovamento del regime democratico” per sconfiggere la controffensiva conservatrice e reazionaria, di allargare  e fare avanzare ulteriormente un vasto schieramento di forze democratiche, e di salvare, rinnovandolo profondamente, il nostro regime politico, democratico e antifascista” (si ricordano a questo proposito una serie di stragi, dal ’69 in poi, in particolare  “Piazza Fontana”, attribuite  a matrici fasciste).

E per l’avanzamento di  tale progetto occorreva una correzione delle  caratteristiche monopolistiche del capitalismo italiano che garantivano ancora  il permanere delle strutture semifeudali del fascismo;  una sorta di richiamo primordiale al patto tra i partiti dell’arco costituzionale dell’antifascismo, esiziale, si diceva, per il proseguimento della democrazia in Italia. Un richiamo  alle idee cardini di Togliatti che, al  IX Congresso nazionale del Pci del 1960,  così scriveva:” Si può affermare che in Italia ha avuto luogo, quasi cento anni dopo il compimento dell’unità nazionale, una grande rivoluzione democratica, quale prima non vi era mai stata[…. ]. Lo spirito, il programma, le tradizioni dell’antifascismo, la grande esperienza positiva delle sue lotte e delle sue vittorie sono un faro che deve guidare tutta la nostra azione. Ho parlato di rivoluzione democratica. Essa si compie però in un paese di capitalismo giunto alle ultime fasi di un suo sviluppo e dove la direzione economica e il potere sono, di fatto, nelle mani dei grandi gruppi monopolistici. Le rivendicazioni dei lavoratori e le riforme della struttura economica sono quindi un suo indispensabile contenuto e il grande capitale monopolistico privato diventa il nemico contro il quale si debbono concentrare i colpi, per limitarne e spezzarne l’illegittimo potere [..]. Il rapporto che passa tra le misure di riforma politica e strutturale che noi proponiamo e i nostri obiettivi più lontani e lo stesso rapporto che si stabilisce, nel mondo moderno, tra democrazia e socialismo”.

In questa  citazione di Togliatti,  si possono evidenziare i 3 (o quattro) punti fondamentali  della politica del Pci; dalla  rivoluzione democratica dispiegata sulle ceneri del nazi-fascismo, alla  democrazia progressiva   che si estende in parallelo ad una intensificazioni delle lotte operaie e  che rendono sempre più stretto il legame tra democrazia e socialismo;  alla  “tradizione dell’antifascismo” che  diventò “vulgo  saepe dicitur “ (si dice spesso al popolo); oltre ad un capitalismo italiano giunto alle ultime fasi di un suo sviluppo del  capitalismo monopolistico,  di kautskiana memoria,  quale anticamera del socialismo.

Il Pci  rappresentò la giusta caratura politica di Togliatti  che, come segretario, era definito il “Migliore”, nella creazione di un partito, a misura di un proprio “abito” (politico), tanto era forte il suo carisma, data la sua esperienza politica forgiata negli anni Trenta a Mosca, come  massimo esponente dell’Internazione Comunista, nonché ascoltato consigliere di Stalin;  oltre a rappresentarsi  come un  interlocutore fondamentale di tutto il mondo ufficiale della politica, comunista, non solo italiana, fino a diventarne un tramite essenziale  di ogni dialogo  con l’intero   mondo comunista dei Paesi dell’Est.

E’ con  certa vis polemica  che  Togliatti ebbe il suo  approccio con il primo governo di Centro-sinistra in Italia, quale espressione di un “moderno e aggiornato capitalismo”, contro tutte le “illusioni socialiste”; e ciò  fu quanto Togliatti  venne scrivendo  su Rinascita del 1962, quando affermò: “ Non si mette seriamente in crisi il sistema politico attuale e l’interclassismo cattolico appoggiando un processo di ammodernamento capitalistico, perché i contrasti sociali e politici che tale ammodernamento comporta possono essere superati dalle forze fondamentali della borghesia che sono disposte anche a sacrificare alcuni interessi di strati borghesi più deboli e arretrati pur di dividere il movimento operaio e di portare avanti il processo di espansione monopolistica”

Una polemica di Togliatti rivolta ad una sinistra (socialista) che  intendeva appoggiare  “un capitalismo avanzato, e con un vasto processo di ammodernamento e di razionalizzazione capitalistica, in grado di “tagliare i rami secchi del vecchio capitalismo, senza esservi obbligato da una dura lotta di massa”.  Pur tuttavia, Togliatti non fu indifferente all’ingresso socialista al governo del primo centro-sinistra (1962), caratterizzato dall’unico boom economico italiano del 57-62 messo in atto dai dirigenti democristiani.  Anzi reagì al governo dello sviluppo economico con una controversa difesa degli interessi nazionali, e il cui contrasto politico, non fu consumato fino in fondo. Si ricorda, a questo proposito, che gli operai comunisti più combattivi venivano  emarginati dalla Fiat  nei “reparti di confine”, (per non parlare dei  “sindacati gialli”), senza una ferrea opposizione costituzionale ( come viene richiamata oggi), ne seguirono le “occupazioni degli stabilimenti Fiat; le uniche occupazioni della Fiat, che si ricordano, furono quelle delle assunzioni di 150 mila operai, nell’immediato dopoguerra. Con la conseguenza, che la conflittualità  operaia fu a  intensità contenuta (ad esclusione delle rivolte cittadine, nel periodo del governo Tambroni, e delle occupazioni contadine delle terre del latifondo degli anni 50 primi anni Sessanta) ed  a una sostanziale copertura della politica della Fiat di “Valletta” (amministratore unico),  che gestì un industria ad alta competizione internazionale, con la creazione dei stabilimenti produttivi nei mercati esteri della concorrenza e delle  le fabbriche automobilistiche costruite  a “Togliattigrad” (1964) in Urss;

Sulla linea  politica (im)posta da Togliatti come una summa ideologica, si svolse un lungo dibattito politico che, dalla sua morte alla segreteria di Berlinguer,  sfociò in due distinte divaricazioni politiche viepiù contrapposte, tra la “destra di Amendola e il centro-sinistra  di Berlinguer e Ingrao.

Il contrasto tra queste due linee fu  interno al partito, secondo la ferrea legge del “Centralismo Democratico” e con diverse prospettive politiche, che riguardavano  le ”specificità dello sviluppo economico”  che faceva da sfondo alle lotte operaie  esplose nell’autunno del ‘69.

Anzitutto, Giorgio Amendola tendeva a non esasperare il contrasto capitale-lavoro, e cercando nel contempo di valorizzare maggiormente le alleanze della classe operaia con i produttori (in particolare, la piccola e media impresa, artigiani, contadini, …) per  le “riforme di struttura,” attraverso una “Programmazione Democratica”, come garanzia di sviluppo della democrazia nella lotta contro il monopolio,  e per eliminare le basi sociali del fascismo,  come “fase avanzata verso il socialismo”.

Questa posizione fu vivamente contestata dalla sinistra ingraiana  e da tutto l’operaismo italiano a partire dall’ideologo, Raniero Panzieri  con il suo cenacolo (Negri, Cacciari..).

Lucio Magri, un “ingraiano di ferro” (poi facente parte  delle “anime belle” del gruppo comunista del “Manifesto”), scriveva che mettere sullo stesso piano, classe operaia e suo sistema di alleanze, in  contrasto contro il Capitale Monopolistico, si svalorizzava la funzione storica della classe operaia come asse portante di ogni conflitto del capitale/lavoro e perciò di ogni cambiamento sociale. Nel sistema delle alleanze, l’elemento lavoro deve risultare fondamentale per essere posto in primo piano; un  sistema di alleanze  deve solo garantire la priorità assoluta da assegnare alla classe operaia come unica classe in grado di portare in avanti lo scontro capitalistico verso il  livello più alto delle sue “contraddizioni”, ed in grado perciò di ”prospettare una democrazia di tipo nuova”.

Pietro Ingrao, in un articolo su “Rinascita del ’69,  dal titolo “ Dove va la Democrazia Cristiana: la strategia delle mance”,   sviluppò una forte critica all’ interclassismo della  Dc che da   partito-cerniera,  tra ceti popolari e ceti medi borghesi,  è passata successivamente ad una funzione di sociale di collante tra  “settori produttivi e settori improduttivi”: un collante improponibile  tra settori produttivi e aspetti  fatiscenti del capitalismo. Il  gruppo dirigente democristiano, privo di prospettive e impegni ideali,   fronteggiò il ’68 studentesco e operaio tradendo la sua funzione più genuina   e  popolare di partito interclassista, costruendo nel tempo,  “una struttura parallela di potere pubblico finalizzata ad una “strategia delle mance” (compenso  strato sociale, per  corrente politica……).. Con un diretto e indiretto vantaggio per le forze della destra eversiva e per le tentazioni fasciste”

E da qui si possono rilevare tutte le ossessioni  ingraiane  e di gran parte del Pci che si autoalimentavano su un proprio vuoto di analisi tendente a ridurre  il capitalismo italiano ad un rapporto sociale tra strutture produttive e strutture capitalistiche arretrate di un  fascismo residuale: una pagliuzza che impedì  di analizzare la “trave” posta nell’ingresso in Europa del nuovo Capitalismo Manageriale Usa (e/o dei “ funzionari del capitale”);  come dire, se la Dc non è più in grado di rappresentarsi come  partito dei  ceti  produttivi, si faccia da parte, altrimenti  si alimenta soltanto il fascismo. Quel sogno non solo ingraiano  si  inverò negli incubi della missione storica dei suo eredi, il Pd(s)  degli anni ’90 – 2010 che,  dopo aver fatto fuori l’industria pubblica, ripiegarono sulla Spesa Pubblica da erogare ai fedeli adepti del blocco sociale  del  settore pubblico.  .

Enrico Berlinguer,  segretario del Pci (dal 1972 all’84), succeduto a Longo (e prima ancora a Amendola) dette subito  l’avvio al “Compromesso Storico”, cui fece seguito, con la “Svolta della Bolognina”(1989) di Occhetto: l’incubo kafkiano di una metamorfosi del Pci in un partito mutante, oscillante tra prezzolati  opinionisti di ex piciisti sostenuti ad arte da una  parte della magistratura (democratica); un‘amalgama politica in decomposizione, a partire dalla debacle demo-socialista di “Mani Pulite (’92), ad excludendum “la gioiosa macchina da guerra ” di occhettiana memoria che celebrò, con la caduta del muro di Berlino (‘89),  il nuovo riordino mondiale che si andava approssimando; e che  alcuni ideologi  cantori sociologi del “secolo breve”, con delle  propaggini nostrane (Arrighi), lo celebrarono come  una nuova fase storica, piena di eventi crepuscolari  impregnati di sottesi scongiuri da fin de siecle:  un disordine in arrivo, da governare con l’ordine mondiale Usa (come del resto avvenne con il  monocentrismo Usa dell’ultimo decennio, 1991-2003 circa).

Gli anni Settanta rappresentarono una doppia valenza storica per i nuovi processi storici che il Pci seppe imprimere con una incontrastata violenza politica sulla storia italiana. E non tanto per l’ ingresso al governo con la Dc, che i più attenti analisti (politici) davano per scontato ( dopo la morte di Togliatti), quanto, e soprattutto, per i risvolti  di  quel primo innesto di “Via italiana al Socialismo” e che  Berlinguer  caratterizzò con, non poche, cesure storiche (sconfitte operaie alla Fiat, l’Eurocomunismo sotto l’ombrello della Nato, il “partito delle mani pulite”..); veri e propri prodromi  di una accelerazione storica, verso la disintegrazione del partito togliattiano, di  sostanziale ispirazione leninista, nella sua organizzazione,  costituita  da un monolitico quadro dirigente gestito secondo un “ Centralismo democratico” e sostituito  nel dopo Berlinguer, da un accolito gruppo di dirigenti politici pronti a vendersi al miglior offerente; una lunga storia e dolorosa  di indefessa militanza politica finita nella polvere.

Né d’altro canto si può sottacere la  cultura politica piciista, unica in Europa, (né propriamente comunista né socialdemocratica) e pur tuttavia capace di imprimere un allungamento storico (durato circa cinquant’anni fino a “mani pulite”, del 1992): una derivazione diretta del valore resistenziale dell’antifascismo giustizialista capace di irretire l’insieme del mondo politico italiano in un forte collante sociale;  il cui “carattere antifascista” si consolidava contro le cosiddette strutture residuali del fascismo, o considerate tali, come espressione diretta del Capitalismo Monopolistico ; come se quest’ultimo fosse un ostacolo al pieno controllo operaio del Capitalismo Monopolistico di Stato,  ultimo stadio (del capitalismo) prima dell’ ingresso al Socialismo.

“Mani Pulite” fu il segnale Usa di una inversione di tendenza da imprimere nella politica italiana: la vendita, anzitutto, di gran parte dell’impresa industriale pubblica dell’Iri. E con essa la caduta di ogni ideologia simbiotica,  tra il “Socialismo dell’Est” e l’Industria Di Stato italiano; entrambi sopravvissuti, come mero metro di paragone, della mitica “ via italiana al Socialismo”; un connubio tra antifascismo-democrazia-socialismo, e che diventò nel tempo  un potere ieratico, in grado di santificare una irreversibile scelta di campo degli ex-piciisti, al servizio sindacale-partitico,  del  complesso industriale e finanziario subdominante Usa, del GF&ID (GRANDE FINANZA e INDUSTRIA DECOTTA).

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